Per chi mi aveva chiesto cosa ne pensavo, eccolo!
La prima cosa che viene in mente leggendo Numbers di Rachel Ward è un liberatorio: “finalmente!”. Sebbene la trama sia in sé decisamente pensata e dedicata a un pubblico adolescenziale, e non osi più di tanto nel narrato, il testo non ricalca in alcun modo l’oramai abusata, straletta e vituperata letteratura in stile Meyer. O per dirla in parole povere e più brevemente: non ci troviamo davanti a un’altra paranormal romance, con vampiri sospiranti, angeli col batticuore, o adolescenti magicamente dotati.
Fin dalle prime pagine si respira una caratterizzazione più decisa dei personaggi, specialmente dei due principali, Jem e Spider, e la storia si tinge di tinte cupe. Una madre morta per overdose, i quartieri più degradati di Londra, una classe fatta di alunni che hanno pochi dei soliti cliché a cui oramai siamo, non dico abituati, ma bensì soffocati. Nulla di fashion. Nessun bellone dalla mascella scolpita e nessuna svenevole ragazzina che si crede brutta e sola, e invece scopre di poter essere bella e seducente.
No. Tutto questo, ed è il pregio principale di questo romanzo della Ward, permette di evitare l’effetto “stucchevole”: che è il grande limite dei romanzi-clone nati dopo Twilight.
L’autrice inoltre ama osare nella caratterizzazione dei protagonisti. E’ vero, Jem ha un dono che non sa controllare e che non vuole, che l’ha resa una diversa, ma la Ward non scade subito nel facile buonismo. Anzi, cerca di relegarla in situazioni che la mettono in seria difficoltà, e che la segnano. Una madre morta per overdose a cui segue il suo ritrovamento in condizioni al limite, una serie di scuole e di famiglie che tengono la giovane in affidamento, una vita allo sbando e, per renderla ancora meno femminile, una scena proprio nelle prime 100 pagine del romanzo in cui la fa radere a zero. Come controparte maschile troviamo Spider, ma non è il rovescio della medaglia. Anzi, ci si trova in una situazione simile. Una vita difficile e problematica, cattive compagnie, insofferenza per ogni forma di autorità, e un aspetto di sicuro ben lontano dai soliti stereotipi (che oramai hanno annoiato anche le pietre) del bellone ricco, seducente e eterno. No, niente di tutto questo, ma un ragazzo di colore, allampanato e trasandato, dal carattere bizzoso e che della propria persona si cura ben poco, come della propria igiene personale.
Altro punto a favore del romanzo è la scena di sesso tra i due giovani in fuga. Un altro cliché che la Ward abbatte senza troppi rimpianti. Ci sono serie per giovani adolescenti che prima di un casto bacio fanno scorrere fiumi d’inchiostro e un paio di tomi. Sono scelte narrative come altre, nulla da dire in merito (almeno finché non diventano un cliché abusato da troppi autori). Peggio ancora quando i protagonisti devono arrivare a consumare la loro passione – solitamente protratta per un minimo di 5 o 6 volumi – e ci si abbandona a decrizioni chirurgiche (meglio se descritte in più capitoli). Vero è che esistono anche le serie che, al contrario di queste, giocano invece sulla seduzione spinta oltre ogni limite (e in questo caso i 5 o 6 volumi si riempiono di scene altrettanto chirurgiche, ma degne di un contorsionista con qualche patologia sessuale grave).
La Ward no. Entro pagina 200 il rapporto tra i due ragazzi viene delineato, analizzato e portato alle sue logiche conseguenze. Molto, verrebbe da dire, naturalmente. Non lo fa pesare in alcun modo, e nemmeno lo trascina forzandolo.
I difetti del romanzo però stanno, forse, proprio nelle premesse che Rachel Ward ci propone, e che brevemente abbiamo riassunto qui sopra. C’è davvero la possibilità per leggere qualcosa di “diverso” e di “nuovo”, sopratutto in ambito della (oramai arcinota) letteratura per adolescenti dotati di strane qualità. Ma la stessa Ward osa fino a un certo punto e non si spinge oltre. Il mondo “nero” e “cattivo” in cui vive Jem, non è poi così nero e cattivo. La storia e gli eventi che ci racconta smentiscono in parte quello che ha voluto creare, ed ecco che Jem trova spesso e volentieri una strada un po’ troppo spianata, e persone in certi casi un po’ troppo gentili con quella che, a tutti gli effetti, non solo è una perfetta sconosciuta dall’aria poco rassicurante, ma anche una ricercata (due scene su tutte: quella del passaggio in macchina offertole da una madre con due figli piccoli; e, successivamente, l’aiuto inaspettato da parte di una ragazza sua coetanea, figlia di un poliziotto di una piccola cittadina).
In definitiva è l’impianto in sé mostrare a qualche segno di cedimento. L’intento è buono, l’idea di base pure, la convinzione nella costruzione degli eventi un po’ meno, come se l’autrice stessa si rendesse conto che per un certo tipo di pubblico scelte troppo forti potrebbero essere interpretate malamente. Questo però non le impedisce di scrivere un epilogo che non esitiamo a definire amaro. Evitiamo di entrare nel merito degli eventi per chi volesse leggere il romanzo, ma allo sviluppo a volte troppo “facile” della trama, segue una chiusura non altrettanto facile e che tratta temi anche molto forti, senza risparmiarci nulla.
Numbers di Rachel Ward è sicuramente un thriller per un pubblico giovane, per adolescenti, che tenta di andare oltre – per idee, eventi e scelte narrative – gli scontati cliché del genere. Ci riesce, in parte. E immette così nuova linfa in questo filone narrativo spesso scontato e banale. Ma non in questo caso.
Grazie di aver soddisfatto la mia curiosità, Luca. Penso che prima o poi me lo leggerò… magari lo farò tramite biblioteca, così risparmio anche qualche soldino.
C’è un punto che mi ha fatto pensare però, quello in cui dici:
[…] come se l’autrice stessa si rendesse conto che per un certo tipo di pubblico scelte troppo forti potrebbero essere interpretate malamente.
Quanto si è imprigionati nel genere, o nel pubblico? Cioè, c’è davvero necessità che l’autrice si tenga, oppure avrebbe potuto, senza problemi per il suo pubblico, andare oltre?
Non è così facile come pare. Con quella frase intendo non solo “remore” che possono essere venute all’autrice, e forse è così (ma non posso saperlo perché non sono nella sua testa); quanto, piuttosto, una decisione che può essere intercorsa in una qualsiasi di queste fasi: progettazione, stesura del plot, stesura del romanzo, editing. Insomma, con quelle poche parole volevo indicare un insieme di fattori che forse dipendono dall’autrice o forse dalle scelte editoriali del suo editore d’origine (non quello italiano, sia chiaro). Gli autori ai loro esordi non sono così liberi come può sembrare (e mi riferisco a quando pubblicano a livelli “alti”), la stessa MZB disse chiaramente che solo con L’Erede dI Hastur, nel 1975, scrisse per davvero un romanzo di Darkover “come lo intendeva lei”: libero da limiti di: pagine, trama, budget, e con un editore che credeva fortemente nel progetto (che, non scordiamolo, era già capace di grandi numeri fin dal 1962). Di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’, prima che MZB fosse davvero “libera”.
L.
Questo lo capisco, nel senso che capisco che può non essere stata l’autrice a volersi ‘fermare’. Però la domanda rimane: c’era davvero bisogno di fermarsi prima?
Ma la mia domanda è più un: qual è il limite per un romanzo per ragazzi? E per bambini?
E questi limiti sono tali perché davvero ‘impressionerebbero’ il lettore, o perché gli adulti/editori/autori credono che il lettore verrebbe impressionato?
Bisogna afferrare il concetto di target. Non è una cosa meccanica, sia chiaro. Si può progettare un libro e poi, una volta scritto, ci si accorge che il target non è più quello previsto: un po’ più alto disolito, ma capita anche il contrario (ma con meno frequenza). Non ti so dire se è giusto o meno che ci sia questo tipo di decisione a priori. L’autore deve scrivere ciò che sente e come lo sente, prima di ogni altra cosa: a costo di restare inedito a vita. Se quella è la sua strada, deve seguirla. Certo è che non mi si possono proporre scene alla Martin (per restare in tema col post sopra) se pensi di aver scritto il nuovo Harry Potter, o qualcosa per lettori di 9 anni.
Evitare il punto di vista del lettore è una buona cosa, perchè ogni lettore è a sé: non esiste “il Lettore”, ma i Lettori. Darsi una regola è necessario, perchè altrimenti si rischia di finire in quel limbo delle opere senza collocazione, scritte bene magari, ma che non sono spendibili in alcun modo. Poi, ripeto, ogni lettore è a sé: io a 13 anni leggevo MZB, e come ben sai certi suoi romanzi toccano tematiche non così ovvie o alla portata di tutti.
L.
No, beh, è chiaro che certe cose devono rimanere fuori, è che a volte ho l’impressione che si pensino bambini e adolescenti troppo innocenti…
e me lo chiedo perché a volte penso a delle cose (storie) e mi rendo conto che, per quanto magari non arriveranno mai a essere messe su carta, e neanche su file, sarebbero cose che non saprei collocare.
Quindi arrivo a domandarmi, appunto, dove sono i limiti e se davvero certi limiti (non parlo di carneficine alla Martin) debbano esserci oppure no.